Onorevoli Colleghi! - Con la presente proposta di legge mi preme prima di tutto ricordare a noi stessi e ai nostri giovani che lo Stato italiano ha inflitto a milioni di persone in Africa un trattamento disumano attraverso deportazioni, prigionia, sfruttamento fino all'annientamento, distruzioni, in palese violazione di quei diritti umani e di quella giustizia internazionale che noi oggi diamo, forse in maniera troppo scontata, per affermata.
      La presente proposta di legge trae spunto anche dalla normativa introdotta in Germania che ha riconosciuto, dopo più di cinquanta anni, indennizzi e riparazioni ai deportati e ai lavoratori impiegati coattivamente in Germania durante il regime hitleriano. Molti di loro erano e sono cittadini italiani che un altro Stato, entrando nelle loro case e occupando le loro città, aveva privato della libertà e in alcuni casi della vita, sacrificandoli sull'altare del grande e folle impero nazista.
      È stato un gesto forte, politicamente e culturalmente, quello dei nostri colleghi tedeschi che all'unanimità hanno lanciato un messaggio di pace e di fratellanza, messaggio che parla alle coscienze di tutta Europa e in particolare a noi, che in Africa siamo stati mossi dagli stessi sentimenti di egoismo, odio e razzismo.
      Con la presente proposta di legge, elaborata anche grazie ai consigli del professore Del Boca e al sostegno della presidenza dell'ARCI, non si propone, infatti, solo di riconoscere un indennizzo - il valore è di fatto simbolico - a quei cittadini libici che hanno conosciuto dell'Italia giolittiana e soprattutto fascista il volto più crudele e truce. Si propone e si offre al Paese e alle sue istituzioni uno strumento per non dimenticare, per promuovere - in un momento

 

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in cui da più parti si invoca la guerra permanente contro il mondo arabo e africano - un'azione di pace, di concreta solidarietà e responsabilità.
      In un momento in cui si invoca da più parti l'odio verso il diverso, come unico strumento di sopravvivenza del nostro stile di vita, e si vuole raffigurare l'Europa e l'Occidente, in generale, come l'unica terra di pace senza responsabilità alcuna verso le gravi crisi internazionali di ieri e di oggi, noi avvertiamo il bisogno di dire che un altro sistema di relazioni, un altro rapporto è possibile tra Nord e Sud del mondo, tra noi e la sponda meridionale del Mediterraneo; e che affinché ciò si realizzi è necessario anche accrescere la consapevolezza che il nostro Paese, come tutte le nazioni, è stato ed è parte di un sistema di relazioni, di azioni fatte e subite, in cui solo la giustizia, l'uguaglianza reale, il riconoscimento dei diritti inalienabili possono rappresentare il collante, la base su cui costruire un'epoca di pace e di rispetto reciproco.
      Per questo è importante saper guardare al nostro futuro senza nascondere il nostro passato, senza evitare di assumerci quelle responsabilità che, ancor prima che politiche e storiche, sono morali.
      Con la proposta di legge si vuole quindi contribuire ad un sistema internazionale animato da princìpi e da valori universali che facciano del nostro Paese uno dei più attivi nella ricerca della pace, della giustizia e della solidarietà internazionali, prima di tutto verso quei popoli verso i quali nutriamo un debito politico e umano, perché ne abbiamo distrutto le case, decimato i capi famiglia, rubato il futuro.
      Occorre dare il buon esempio e compiere anche noi un atto politico forte come quello compiuto dal Parlamento tedesco, consapevoli che molti sono i pregiudizi e molta l'ignoranza, la voglia quasi di non ricordare, presenti anche fra noi e i nostri concittadini. Inutile negarcelo: in Italia vi è stata una rimozione dalla memoria collettiva di ciò che è stata la nostra avventura coloniale, i nostri errori e i nostri crimini. E se un ruolo positivo ha sicuramente svolto la nostra storia recente di «amici del popolo libico» non possiamo che dirci preoccupati della scarsità di informazioni, di saperi, di pubblicazioni in merito all'argomento. Informazioni che non sono giunte ai nostri giovani, che faticano ad animare uno studio critico e sereno nelle nostre aule scolastiche, che rischiano di non far maturare nella coscienza dei più giovani un senso esatto di ciò che è stato e di ciò che non deve più ripetersi, magari in forme nuove, ma non per questo meno tragiche.
      L'Italia non ha mai fatto un'opera di autocoscienza per comprendere e condannare le azioni politiche e militari in territorio extra europeo. La dimenticanza collettiva non ha lasciato spazio ad alcuna riflessione critica e «l'Impero» è divenuto paradossalmente un esempio citato più volte dai post-fascisti per assolvere parzialmente il regime mussoliniano.
      La coscienza degli italiani è stata prima offuscata dalla propaganda giolittiana e fascista che nascondeva i reali interessi allora in gioco; poi vi è stata quasi un'operazione sistematica di repressione delle testimonianze, di copertura delle diverse fonti storiche e archivistiche, il tutto mistificato dall'idea di un esercito italiano più buono e meno crudele di altri, di una funzione di «civilizzazione» economica, sociale, industriale che i nostri amministratori, civili e militari, hanno svolto. Questi sono ancora i luoghi comuni con cui ci scontriamo quotidianamente.
      Eppure, passando in rassegna le documentazioni e gli studi sul colonialismo ci si accorge immediatamente - per citare lo storico Matteo Dominioni - che il grosso del materiale è quello coevo e che la maggior parte del materiale pubblicato appartiene alla memorialistica dei reduci e dei gerarchi fascisti oppure a pubblicazioni periodiche di associazioni di reduci intrisi di revanche.
      E se è vero che negli ultimi anni si va affermando un nuovo interesse in materia di colonialismo, che ha rotto con il passato anche grazie al contributo straordinario del professore Angelo Del Boca e della sua prima opera «Gli italiani in Africa Orientale»,
 

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ancora troppo poco è stato fatto, come testimonia il fatto che le più importanti ricostruzioni storico-politiche in merito sono di autori stranieri.
      Ancor prima, quindi, che mettere in risalto la proposta centrale di riconoscere un indennizzo ai cittadini libici o ai loro eredi, vittime dell'imperialismo italiano, preme evidenziare quanto la proposta di legge punti anche a contribuire ad una discussione e ad una ricostruzione storica di quei tragici fatti per permettere alle giovani generazioni di non ripetere gli sbagli fatti in passato e di essere consapevoli che il nostro Paese non è stato esente da crimini e da misfatti che hanno caratterizzato l'Occidente e l'Europa durante la prima metà del novecento.
      La promozione stessa di scambi culturali e di una maggiore collaborazione proprio tra giovani cittadini italiani e giovani cittadini libici si inserisce all'interno di questa riflessione e proposta.
      Come detto in precedenza la proposta di riconoscere un indennizzo ai cittadini libici è un atto dovuto ed essenziale per dimostrare che un diverso sistema di relazioni internazionali è possibile, superando l'idea che solo la forza possa regolarle.
      Anche qui occorre compiere un atto di coraggio e ricordare, numeri e fatti alla mano, cosa è stata la politica italiana in Libia e nell'Africa orientale.
      Dal 1911 al 1943 la Libia ha conosciuto, a seguito dell'invasione italiana, circa centomila morti, su una popolazione complessiva di ottocentomila abitanti. Una vera e propria decapitazione del popolo libico, della sua generazione più importante (quella la cui età era compresa principalmente tra i 20 e i 30 anni) passata attraverso due fasi.
      La prima, successiva alla conquista nel 1911-1912, con in realtà un numero relativamente esiguo di vittime (circa 8 mila) e con circa 5 mila deportati, di cui qualche migliaio nella zona industriale di Milano, come lavoratori coatti.
      La seconda, tragica, durante il ventennio fascista e principalmente durante la «normalizzazione» della Tripolitania e la repressione delle rivolte capeggiate da Omar al-Mukhtar, con più di centomila vittime e decine di migliaia di deportati presso campi di concentramento e di lavoro presenti sia in altre zone della Libia che in altre colonie dell'Africa Orientale Italiana e nel nostro Paese.
      In particolare, migliaia furono i cittadini libici deportati dalla Cirenaica e dalla Tripolitania, in particolare dal Gebel, in campi di concentramento e di lavoro in altre zone libiche, in Etiopia e nel nostro Mezzogiorno. Deportazioni, ma anche distruzioni di interi villaggi, con espropri e saccheggi operati soprattutto dove maggiormente erano concentrate le zavie senussite, centri spirituali e assistenziali tipici delle popolazioni libiche (quasi 500 furono le zavie distrutte e quasi 70 mila ettari della migliore terra della Cirenaica furono resi incoltivabili per le popolazioni locali, costrette a veri e propri esodi forzati, con tanto di scorte militari, solo nell'anno 1930).
      Tra i provvedimenti di maggior rilievo presi dall'amministrazione italiana se ne ricordano solo alcuni più esemplificativi: il raggruppamento coatto delle popolazioni indigene nelle vicinanze dei presìdi italiani, con l'utilizzo di lavoro forzato per la sistemazione delle principali linee viarie limitrofe, nonché il contemporaneo razionamento dei viveri per un numero stimato di almeno 10 mila persone solo nella zona della piana di Barce, Tolmeta, el Mechili); l'esproprio dei beni immobili e mobili di tutte le zavie della Cirenaica; il trasferimento coatto di decine di capi religiosi presso il campo di concentramento di Ustica; la deportazione completa delle popolazioni nomadi in aree particolarmente aride presso la costa e sotto controllo militare; la detenzione di circa 90 mila libici in campi di concentramento nel sud bengasino e nella Sirtica (una delle zone «tra le più aspre, senza una mica d'ombra, adatta per dare a tutti la sensazione del castigo» dirà il giornalista Felici presente alla deportazione, che aggiungerà «chi, durante il viaggio verso i campi di lavoro, indugiava o rallentava la colonna veniva immediatamente passato per le armi»); le deportazioni di almeno 6.500 Abeidat e
 

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Marmarici nel campo di Ain el Gazala, nelle vicinanze di Tobruk; la deportazione di centinaia di giovani libici in Etiopia e Eritrea; le deportazioni di alcune migliaia di persone presso campi di lavoro in Abruzzo, di detenzione in Puglia e Sicilia; decine di bombardamenti su città e complessi civili (tra cui il bombardamento della città di Cufra) con centinaia di donne e di bambini barbaramente uccisi.
      Si aggiunga a ciò che circa 5 mila furono i libici nella sola zona del Gebel, i quali, venendo loro negati ogni sorta di mezzi di produzione (si ricorda, tra l'altro, che il Governo italiano eliminò circa il 90 per cento del bestiame di proprietà indigena nei due anni 1930-31), furono utilizzati forzatamente («inseriti» come recitano le circolari amministrative italiane) in lavori di natura edile con salari - quando riconosciuti (mediamente una volta su quattro) - tre volte inferiori a quelli italiani.
      Il tutto era fatto con precisa e lucida volontà di fiaccare ogni possibile resistenza nel popolo libico, di cui vanno «gradualmente annullati i tratti culturali più tipici e contrari al regime fascista e allo spirito italico» (per citare le parole dei telegrammi di Badoglio e Graziani, più volte approvate dallo stesso Mussolini).
      In totale, furono deportati all'interno delle colonie e in Italia, se prendiamo per buono il censimento turco del 1911, la metà intera degli abitanti della sola Cirenaica e di questi quasi il 20 per cento morì all'interno dei campi di concentramento e lavoro sotto amministrazione italiana (un «universo concentrazionario» fu definito da Marie De Bonneuil) per fame, stento, mancanza di igiene e di presìdi sanitari (nei campi di detenzione vi era una media di due medici ogni 60 mila detenuti).
      Tutto questo avveniva mentre in Italia poco si sapeva (e ancora si sa) e quel poco era misera propaganda all'insegna del compiacimento e della convinzione di star svolgendo una funzione per cui «i libici dovranno a noi eterna gratitudine», almeno a leggere le parole scritte da Giuseppe Bedendo, biografo ufficiale del gerarca fascista Graziani.
      La reclusione nei campi durerà mediamente (per tutta la Libia, Tripolitania e Cirenaica quindi) dai tre ai cinque anni nelle colonie, più di quindici anni per i deportati in Italia. I lavoratori detenuti e impiegati in mansioni diverse furono circa 12 mila (di cui almeno 4 mila in campi di detenzione e lavoro italiani). Anche sui numeri però vi è assoluta incertezza - occorre dirlo senza infingimenti - e di fatto gli unici archivi, ancora da verificare da un punto di vista storico, sono quelli contenuti presso la ex Casa dei mutilati a Tripoli.
      Per questo, alla luce di una responsabilità oggettiva dell'Italia, si propone di riconoscere un indennizzo ai cittadini libici detenuti in campi di concentramento italiani, situati in alcune parti del Paese e delle nostre colonie, dove venivano utilizzati come lavoratori coatti, anche allo scopo di avere consapevolezza sulle reali dimensioni di questa immane tragedia.
      Sono infine ben consapevole che persiste tuttora un'annosa questione che riguarda anche i cittadini italiani, in particolare coloro che furono espulsi e subirono espropri a seguito del mutamento di regime in Libia nel 1969.
      Sono comunque profondamente convinto che le buone ragioni degli italiani possano trovare risoluzione se per prima di tutto l'Italia, al di là del risarcimento grazioso avvenuto nel 1957, dimostri di cercare e di superare davvero il proprio passato, riconoscendo i crimini e i misfatti del regime fascista e dell'Italia durante il periodo coloniale. A quel punto ogni tentennamento anche del Governo libico penso possa venire rapidamente superato.
      Princìpi di riparazione e di giusto riconoscimento, in un senso e in un altro, del resto più volte richiamati anche ultimamente nel comunicato congiunto italiano-libico del luglio 1998 in cui si conviene insieme al Governo libico che «perché la Libia superi il passato e l'Italia non lo ripeta, occorra sviluppare relazioni fondamentalmente improntate alla collaborazione e al senso di giustizia». E giustizia vuole, onorevoli colleghi, che noi si approvi la proposta di legge che punta a
 

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riparare errori tragici e ad insegnare alle giovani generazioni che non vi è futuro senza pace, solidarietà, responsabilità e uguaglianza tra cittadini e tra i popoli.
      Con la presente proposta di legge, si propone, quindi, all'articolo 1, di riconoscere e ribadire che lo Stato italiano ha inflitto negli anni tra il 1911 e il 1943 a lavoratori e cittadini libici, spesso ridotti in stato simile alla schiavitù, deportati e detenuti, sfruttati fino all'annientamento, innumerevoli violenze e pesanti ingiustizie. Al fine di contribuire al superamento di questo passato e alla costruzione di un rapporto migliore basato anche sulla conoscenza reciproca, è istituito il programma nazionale denominato «Memoria, responsabilità e futuro». Lo scopo principale del programma sarà quello sia di concedere indennizzi (3 mila euro ad ognuno) agli ex lavoratori e cittadini libici o ai loro eredi, forzati, deportati o colpiti da altre ingiustizie nel periodo compreso tra il 1911 e il 1943, con particolare attenzione per i deportati colpiti dalla repressione del Governo fascista (articolo 2) sia di favorire la promozione di scambi culturali tra i giovani italiani e i giovani libici, la promozione di campagne di sensibilizzazione sulla natura e le caratteristiche del regime coloniale italiano, rivolte in special modo ai cittadini italiani più giovani, la promozione di strumenti editoriali comuni, la promozione di ricerche e pubblicazioni storiche relative all'occupazione italiana della Libia negli anni compresi tra il 1911 e il 1943 (articolo 3).
      L'articolo 4 disciplina la misura dell'indennizzo e le condizioni in cui devono trovarsi i cittadini libici (o eventuali eredi legittimi e diretti in base al diritto libico) per averne diritto; in particolare l'indennizzo spetta ai lavoratori coatti quanto ai deportati ed è esteso anche a chi è stato mantenuto in uno stato di detenzione (o comunque di privazione della libertà e di accesso alle normali fonti di approvvigionamento) per un periodo superiore ai diciotto mesi, presso campi di concentramento o ghetti o tendopoli recintate e sorvegliate da militari italiani.
      Gli articoli 5 e 6 individuano i tempi e le modalità di presentazione della domanda di indennizzo.
      L'articolo 7 prevede la deducibilità, a fini fiscali, delle erogazioni liberali in favore del programma «Memoria, responsabilità e futuro».
      L'articolo 8 provvede, infine, alla copertura finanziaria del provvedimento.
 

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